Benvenuti sul sito della Libreria Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola per informazioni benvenuti sul sito della Librerai Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola. Acquista Offerte del mese Novità del mese
per informazioni benvenuti sul sito della Librerai Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola. Acquista Offerte del mese Novità del mese sito internet http://www.libreriaeditriceurso.com
dal 1975 un angolo di cultura ad Avola
FacebookYouTubeTutto per Santiago de CompostelaTelegramcontattacilibreriaCatalogo aggiornatopaypal
whatsapp
ISBN 978-88-6954

info@libreriaeditriceurso.com

acquista

Novità del mese Offerte del mese Acquista per informazioni Miucci LEONARDO MIUCCI
SPAZIO A CURA DELLA
LIBRERIA EDITRICE URSO

e-mail info@libreriaeditriceurso.com
vedi Catalogo Libreria Editrice Urso
Catalogo aggiornato
scarica IN PDF
scarica IN WORD


LETTURAVI PARLO DI UN LIBRO

NUOVO!!!Teocrito Di Giorgio
Le manette (Dramma in tre atti)
A cura di Maria Suma
Libreria Editrice Urso, Collana "Mneme" n. 51
2018
, 8°, pp. 56, 10,00 – ISBN 978-88-6954-189-6

PER “LE MANETTE – Dramma in tre atti” di Teocrito Di Giorgio

È molto difficile fare e parlare di cultura al giorno d’oggi perché si rischia di non essere capiti o, peggio ancora, di essere derisi. Esistono tuttavia ancora baluardi, che si pongono autenticamene e caparbiamente e, aggiungerei, instancabilmente il proposito di portare avanti questa missione impossibile in un’epoca nichilista come la nostra.

Certamente uno di questi baluardi è costituito dalla Libreria Editrice Urso di Avola, che non ha mai smesso un solo attimo di organizzare eventi culturali – aperti a tutti e senza onere per alcuno –, capaci di restituire la perduta identità della nostra città.

È risaputo che il patrimonio culturale di una comunità, piccola o grande che sia non ha importanza, esprime il significato della nostra identità: chi siamo, possiamo capirlo soltanto se non trascuriamo la conoscenza del nostro patrimonio cultuale e la sua tutela.

E d’altronde, un motivo ci sarà stato se anche i padri costituenti hanno avvertito l’esigenza di consacrare all’art. 9 della Costituzione, quindi tra i principi fondamentali (che non possono essere oggetto di modifica alcuna), il riconoscimento e la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico.

Tutelare il patrimonio culturale significa, nella sostanza, custodirlo per le generazioni future perché queste possano apprendere della loro origine e capire ciò che sono.

Ciò dovrebbe essere compito di ognuno di noi – e principalmente delle istituzioni preposte e degli amministratori locali – fare in modo che la conoscenza delle opere, degli autori, dei monumenti, del patrimonio culturale nel suo complesso, che ha segnato la nostra comunità non venga dimenticato o ignorato.

Uno degli ultimi lavori edito dalla Libreria Editrice Urso di Avola si indirizza proprio in questo senso con la pubblicazione del dramma teatrale “Le Manette” di Teocrito Di Giorgio, a cura dell’avvocatessa Maria Suma, che ne ha appunto curato la pubblicazione e la prefazione al testo.

Teocrito di Giorgio era un figlio della nostra città di Avola, avvocato e giurista, personaggio poliedrico, come lo definisce la stessa Maria Suma, per essere stato poeta, scrittore, musicista ed altro ancora.

Ma Di Giorgio è pressoché sconosciuto ad Avola nonostante due precedenti pubblicazioni: il racconto “Per un pugno di case” dello stesso Di Giorgio, edito da Trevi; e la biografia “Teocrito Di Giorgio. Poeta, scrittore, traduttore” di Salvatore Salemi, pure edito dalla Libreria Editrice Urso di Avola.

Maria Suma non si è limitata a pubblicare l’opera teatrale “Le manette”, ma ha svolto una ben più approfondita e scrupolosa ricerca sulla persona del Di Giorgio, ricerca che tuttavia non trova spazio nella presente pubblicazione ma che ci auguriamo venga restituita alla collettività in una prossima pubblicazione.

 L’opera teatrale “Le manette” è stata presentata sabato 7 luglio 2018, nel cortile di quella che fu l’abitazione di Teocrito, ora abitata dal figlio Enzo, alla presenza della stessa curatrice avvocatessa Maria Suma, che, dopo aver tracciato la biografia dello stesso Teocrito, ha spiegato magistralmente il senso dell’opera, nonché alla presenza dell’editore Ciccio Urso e di un numero considerevole di partecipanti.

Già dalla presentazione di Maria Suma ho avuto la sensazione che l’opera si innestasse nel solo culturale inaugurato dal grande drammaturgo siciliano quale è stato Luigi Pirandello; la conferma ne è poi venuta dalla lettura del testo.

Senza voler svelarne l’intero contenuto, anche per rispetto di chi volesse leggere il testo, cosa che personalmente invito a fare sin da subito, si tratta della storia possiamo dire di un “dissidio” tra due giudici, i quali discutono attorno alla responsabilità penale di un giovane avvocato accusato di appropriazione indebita, ed uno dei due, di stampo colpevolista e tutto “sicuro di sé”, è persuaso che alla condanna di un individuo possa pervenirsi attraverso l’applicazione dei principi di diritto; e l’altro, invece, ritiene che debba tenersi conto della persona incriminata, del suo essere persona e quindi decidere della sua colpevolezza tenendo bene a mente la dimensione umana, esistenziale oserei dire.

L’epilogo è drammatico non solo per l’esito del dissidio, che non sto qui a rivelare, ma soprattutto per le forti implicazioni giuridiche-esistenziali, se così posso dire, e al tempo stesso filosofiche che a mio parere sembrano scaturire dall’opera.

Uno dei due protagonisti, il giudice Clemente, paradigmatico il nome scelto dall’autore – come afferma la stessa Maria Suma –, si pone un problema di coscienza: come può un giudice condannare un suo simile pur sapendolo innocente? In altri termini, come può un giudice condannare un uomo solo sulla base dei principi del diritto, nonostante i fatti storicamente accaduti depongono a favore della innocenza dell’incolpato?

La coscienza, ritengo, sia un po’ la questione nodale di tutta l’opera, ossia quella componente del nostro “Io” che ci interroga incessantemente e ci pone di fronte alle nostre responsabilità. Chi non ricorda, per citare un’opera letteraria di conoscenza planetaria quale è “Delitto e castigo” di Dostoevskij, dove il giovane Raskòl'nikov, dopo essere stato devastato dai morsi della coscienza, decide di confessare l’atroce crimine e di assoggettarsi alla relativa pena?

La società scopre la coscienza attraverso l’opera di Freud, il quale la descrive attraverso le tre topiche dell’Io, dell’Es e del Super-Io, assegnando a ciascuna di esse una ben precisa funzione.

La letteratura fa sua questa ricostruzione e l’opera di Pirandello partorisce capolavori quali “Uno, Nessuno e Centomila”, e “Il fu Mattia Pascal”, per citarne alcuni.

Teocrito Di Giorgio è, a tutti gli effetti, un pirandelliano perché, attraverso il giudice Clemente del dramma “Le manette”, pone sul tappeto una questione fondamentale: la coscienza.

Ma l’opera contiene anche altri significati.

Se dobbiamo paragonare Di Giorgio alla figura di Pirandello, non possiamo trascurare l’epoca in cui i due vissero e produssero le loro opere letterarie.

L’epoca è il 900, e il Romanticismo, quale movimento culturale che poneva alla base del suo pensiero lo spirito, aveva lasciato il posto al Positivismo, quale movimento culturale che pone a base del suo ideale il progresso scientifico.

Ma siamo anche nell’epoca del “Nichilismo”, come profetizzata da Friedrich Nietzsche, nella quale tuttora viviamo, che si caratterizza per la totale mancanza di valori a cui l’uomo possa ancorarsi, manca, in altri termini, una risposta, che sia una, al “perché”.

Siamo nell’epoca della alienazione dell’uomo, il quale è diventato merce di scambio in un processo consumistico e capitalistico nel quale egli assume valore solo nella misura in cui è in grado di vendere la sua forza lavoro.

I tre maestri del sospetto, Marx, Freud e Nietzsche, hanno sviscerato, ognuno secondi i rispettivi ambiti, molto bene la condizione in cui versava (e tuttora versa) l’uomo moderno.

Dalla fallacia dell’esistenza umana ne nasce uno spaesamento dell’uomo, una frammentazione dell’Io, perché egli non riesce a capacitarsi del fatto che le sue certezze, proprio come il giudice colpevolista del dramma “Le manette”, non possono essere definite tali; non riesce a trovare una risposta al “perché”.

Ecco, io credo che l’opera “Le manette” di Teocrito Di Giorgio, curata da Maria Suma, voglia dirci soprattutto di questo spaesamento dell’uomo, di questa forma crudele di nichilismo alla quale come farmaco sembra esserci solo la pazzia.

Una considerazione finale va fatta anche alle accezioni giuridiche che l’opera importa.

Vi è un moto di coscienza da parte dell’autore, ma vi è anche una esigenza di verità.

Di quale verità?

Nel libro “Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov, Ponzio Pilato, nell’interrogare Gesù, gli chiede: “E perché tu, vagabondo, nel bazar sobillavi il popolo raccontando della verità, di cui non hai idea? Che cos’è questa verità?” … Oh dèi! Gli pongo domande inutili ai fini del processo … la mia ragione non mi obbedisce più … La verità è innanzitutto nel fatto che ti duole il capo, e ti duole tanto forte da suggerirti vili pensieri di morte. Tu non solo non hai la forza di parlare con me, ma ti è persino difficile guardarmi. E ora io involontariamente sono il tuo torturatore, e questo mi addolora”.

La verità cui tende il processo, e in particolar modo il processo penale, è una verità processuale alla quale si accede attraverso lo svolgimento del processo secondo le norme che lo disciplinano: il giusto processo, come mirabilmente affermato in sede di presentazione la curatrice avvocatessa Maria Suma.

Al processo non interessa la verità storica, ossia la verità scaturita dai fatti fenomenologicamente verificatisi; quei fatti, perché possano dirsi a fondamento della responsabilità penale del soggetto imputato, debbono cristallizzarsi davanti agli occhi di un soggetto terzo ed imparziale, quale è il giudice, che dovrà poi in relazione alla loro sussistenza o insussistenza giudicare, quindi condannare o assolvere.

Capite allora quale compito immane spetta al giudice, quello di trovarsi di fronte a fatti anche di una certa crudeltà e tuttavia assumere decisioni prescindendo dagli stessi qualora non risultassero provati secondo le norme.

Come dire che forse sono le norme le sole portatrici di verità, di tante verità o di nessuna verità.

Come vedete, siamo a Pirandello o, se preferite, a Teocrito Di Giorgio.

Infine, desidero esprimere il mio ringraziamento a Maria Suma per avermi fatto conoscere quest’opera di Teocrito di Giorgio, a me sconosciuta, e per l’eccellente lavoro di ricerca svolto, che, come innanzi già detto, ci auguriamo possa trovare in tempi brevi la necessaria pubblicazione a beneficio della collettività.

Un ringraziamento lo devo anche a Ciccio Urso per la sua instancabile attività culturale che quotidianamente svolge in favore della collettività avolese, sebbene questa non ne dimostri riconoscenza.

Un particolare omaggio voglio indirizzarlo alla bella Liliana che, con la sua dolcezza, è riuscita ancora una volta a solleticare le corde del cuore con le sue canzoni ed in particolare con il brano “Salve sono la Giustizia” dei Nomadi, a me totalmente sconosciuto.

Come vedete, non si smette mai di imparare.

Ecco, questa potrebbe essere la verità!

Avola, 8 luglio 2018

Leonardo Miucci

 

Salvatrice Catinello
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
a cura di Roberta Malignaggi
2011, 8°, pp. 128
€ 14,00
Collana OPERA PRIMA n. 27
ISBN 978-88-96071-48-9

copertinaHo letto il libro “Come potrò dire a mia madre che ho paura?” a cura di Roberta Malignaggi, edito dalla Libreria editrice Ciccio Urso di Avola, che narra la tragica vicenda personale e familiare di Claudio Macca, un ragazzo avolese tossicodipendente, morto nel 2010 di un male incurabile in conseguenza dell’uso di eroina. La storia è raccontata dalla madre di Claudio, signora Salvatrice Catinello, direttamente alla curatrice, la quale, al fine di metterla insieme secondo un registro narrativo, non si è negata la lettura delle lettere che Claudio mandava dal carcere alla madre, né l’ha preoccupata lo studio della documentazione che ha riguardato il giovane avolese nei suoi trascorsi giudiziari. Il libro si fa leggere tutto d’un fiato, cosa che ho fatto una delle trascorse sere fino alle due di notte. Il merito va ascritto, ovviamente, alla curatrice Roberta Malignaggi.
La lettura del libro mi ha suscitato alcune considerazioni che mi sembra doveroso mettere per iscritto. Anzitutto mi ha colpito la determinazione e la caparbietà di una madre che non ha mai smesso, neanche di fronte alle impossibilità, di lottare per cercare di recuperare il figlio, giungendo addirittura a denunciarlo e, quindi, a farlo trarre in arresto a causa di un furto e di alcune percosse in suo danno: sperava la signora che in carcere egli almeno non si sarebbe drogato. Alla signora Salvatrice Catinello va tutta la mia solidarietà per quanto la vita le ha riservato.
Il fenomeno della tossicodipendenza è concepito dalla società in modo banale ed è, pertanto, in altrettanto modo affrontato. Si è soliti pensare al drogato come ad un malato, mentre si trascura di considerarlo da un punto di vista esistenziale. In tutti i tossicodipendenti che ho avuto modo di incontrare, anche in ragione della mia professione, ho scorto in loro, nei loro sguardi in particolare, un senso di profondo smarrimento, una paura, e credo che quella paura sia addebitabile ad una sostanziale paura di vivere, di affrontare la vacuità della vita. Solitamente il tossicodipendente viene, invece, eluso, scansato e, dunque, emarginato. Ci si interroga poco o per niente sui motivi del drogarsi e siamo portati a giudicare secondo schemi, pregiudizi, dogmi, trascurando di ragionare partendo da una dimensione che vada oltre il tossicodipendente. Ma si sa che porsi in una dimensione meta-tossicodipendente, occorre una flessibilità di vedute, scevre da pregiudizi di sorta. E si sa anche che staccarsi dai dogmi è cosa assai ardua. La nostra forma mentis è strutturata in modo tale che qualsiasi fenomeno, prendiamo a studiarlo soggettivamente, a partire da ciò che ci appare davanti, senza curarci delle condizioni che hanno dato luogo a quel fenomeno. L’osservato e l’osservatore: chi dei due dice la verità?
Per capire il tossicodipendente occorre una rivoluzione copernicana: non bisogna osservare il drogato, ma sforzarsi di capire quali siano le condizioni che lo creano. E le condizioni sono sotto gli occhi di tutti, basterebbe osservarle: una società individualista, incapace di “curarsi” delle persone bisognose; una società assente riguardo gli emarginati; una società senza coscienza civica; una società in cui a vincere sono solo coloro che vengono rappresentati da rapporti di forza superiori; una società in cui le leggi di mercato ordinano la vita di ognuno senza che l’individuo possa avere la facoltà di decidere secondo le sue aspirazioni, la sua cultura, i suoi bisogni; una società in cui ormai neanche più il diritto riesce a regolamentare. In un modello sociale di tal fatta l’individuo più sensibile vive male, egli non sa come sfuggirgli, e cerca vie d’uscita. Va bene quando le trova, e qualcuno con un po’ di fortuna le trova; altri no. Pur cercandole in tutti i modi.
Credo, contrariamente al senso comune, che il tossicodipendente sia una persona che scopre improvvisamente una sorta di male di vivere dal quale non riesce a fuggire; non riesce, come direbbero gli analisti, a sublimare o a rimuovere, ché la sublimazione o la rimozione gli darebbe la garanzia di una vita “normale”; lui cerca una via d’uscita dalla verità esistenziale, troppo vera e troppo angosciante da accettare, una via che il poeta troverebbe nella poesia, l’artista nell’opera d’arte; il tossicodipendente la trova nell’eroina. Egli colma il suo vuoto riempiendosi di dosi. Il tossicodipendente si fa contenitore per riempire il suo vuoto.
Intervento di Leonardo MiucciTra il drogato ed il poeta non vedo nessuna differenza, anzi vi scorgo una sostanziale continuità di pensiero, sebbene con modalità diverse. E mi viene in mente Baudelaire con la sua opera I fiori del male, metafora che il poeta usa per descrivere il suo fuggire dall’angoscia di vivere rifugiandosi nell’alcool e nella droga.
Oltre al problema della tossicodipendenza il libro pone all’attenzione della nostra coscienza di cittadini quello delle carceri, esperienza che Claudio Macca ha purtroppo maturato più di una volta. Il Ministro di Grazia Giustizia Paola Severino, nei giorni scorsi, dopo le visite presso alcuni penitenziari del nostro Paese, ha definito il carcere un luogo di tortura. Lo stesso ministro, nella sua prolusione pronunciata presso la Corte d’Appello di Catania, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha affermato che “dalle situazioni delle carceri si misura il livello di civiltà di un paese” e che “lo Stato non ripaga mai con la vendetta, ma vince con il diritto e l’applicazione scrupolosa di regole e legge”. Secondo l’ordinamento giuridico italiano, e precisamente in virtù dell’art. 27 della Costituzione, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una breve e sommaria esegesi della norma porta subito a considerare che il senso di umanità non può che consistere in quelle possibilità nelle quali l’essere umano possa trovare la sua totale realizzazione come persona. È ovvio, dunque, che una prima caratteristica estrinsecativa di questo senso non può che essere la necessaria condizione di libertà. Sia chiaro: non intendo dire che colui il quale commette reati debba rimanere impunito. Come dico che è giusto che il delinquente sconti la sua pena per i reati arrecati. Ma dico anche e semplicemente che la galera, vista come pena capace sia di risarcire il danno arrecato dal reato sia di rieducare il soggetto, ha pienamente fallito. E devo dire che anche in questo caso si evita di affrontare nel giusto modo il fenomeno, preferendo guardare il carcerato in quanto tale, piuttosto che le motivazioni che lo hanno indotto a diventare tale. Trascuro qui di considerarle in modo approfondito, perché le ritengo in linea di massima, fatte salve alcune specifiche eccezioni, tutte riconducibili a questioni di natura culturale ed economica; culturale perché, come i sistemi criminali insegnano, c’è una avversità ad accettare la presenza dello Stato quale unico soggetto detentore della forza, là dove per forza non dobbiamo intendere solo ed esclusivamente l’uso fisico di essa, quanto piuttosto la possibilità di applicare le regole del diritto, munite di sanzione: la mafia ha le sue di regole e per essa bastano e avanzano; economica perché, ed in questo caso è l’analisi marxiana ad insegnare, le condizioni di vita di ciascuno di noi sono dettate da fattori esogeni dalla volontà del soggetto e sono determinate sostanzialmente da lotterie economiche delle quali la persona non possiede il controllo.
Sembra emergere oggi una coscienza nuova attorno al fenomeno carcerario, una coscienza che proviene anzitutto dalle istituzioni che a quanto pare sembra abbiano assunto consapevolezza della drammaticità del problema. Mi preoccupa, tuttavia, il fatto che si tenti, come sempre, di affrontarlo con espedienti di contingenza, quali scarcerazioni facili, amnistie, detenzione domiciliare e quant’altro, e mai attraverso un proposta che prenda in esame, in modo coraggioso, la possibilità di un cambio culturale che si ponga l’obiettivo di creare modi di espiazione della pena diversi dal carcere. Come può un carcerato, che vive per anni insieme ad altri carcerati condannati per reati più o meno gravi, redimersi, interiorizzare le sue responsabilità e, dunque, capire d’aver sbagliato e proporsi un reinserimento nella società? Il più delle volte il carcerato avverte la pena detentiva come conseguenza ingiusta dei reati commessi e molto spesso il carcere, soprattutto quando è alla prima esperienza, diventa una sorta di iniziazione; molti mafiosi e non, dopo qualsiasi periodo di detenzione breve o lungo che sia, plaudano all’esperienza fatta perché ritenuta nel loro ambito culturale altamente formativa per il loro delinquere. È una specie di corso formativo riservato a chi decide di continuare su quella strada.
Chi è dunque il malato? Il tossicodipendente, il carcerato, o la società nel suo complesso di uomini cosiddetti normali, che non s’avvede, o preferisce non avvedersi, ché la verità fa male sentirsela dire?
Ecco allora che, attraverso la pubblicazione della sua tragedia familiare e quella del figlio Claudio, la signora Catinello, sebbene motivata ritengo da un inconsapevole bisogno di rimozione del senso di colpa per non essere riuscita a strappare il figlio alla morte, credo che abbia voluto rivolgere alla collettività un invito alla riflessione sul fenomeno della tossicodipendenza, stimolandoci a guardare oltre, e sul sistema penitenziario, che così concepito e strutturato annulla ogni possibilità di rieducazione del condannato, annientandolo come persona.
Il coraggio di questa madre è rappresentato dalla scelta consapevole di rendere pubblica la sua tormentata e tragica esistenza e quella del figlio tossicodipendente, nella speranza che ciò possa sensibilizzare la comunità nella quale la gente sana, normale e socialmente accettata crede di vivere.
“Come potrò dire a mia madre che ho paura?”
Nella crescita di ogni uomo la presenza della madre è determinante, perché è grazie alla madre che la persona diventa soggetto. È una brutta parola quest’ultima, che non mi piace, sa di tecnico e, quindi, di artificiale. Ma così è. Nel regno animale, sappiamo che il cucciolo appena nato è immediatamente accudito dalla mamma, che lo lecca, gli trasmette con il suo fiato un senso di sicurezza come a dirgli “non ti preoccupare, ci sono qua io, gli sciacalli staranno alla larga”. Il cucciolo appena nato ha paura della vita, perché ancora non la conosce ed anche quando inizierà a conoscerla avvertirà sempre quel senso di insicurezza, di disagio, di paura. Ma ci sarà sempre sua madre a proteggerlo, a difenderlo.

Avola, 29 gennaio 2012

Leonardo Miucci

La disputa“La partecipazione è il sale della democrazia”

In un’epoca come la nostra, caratterizzata per la sua fluidità, diventa veramente molto difficile partecipare alla vita politica o, comunque, la partecipazione effettiva, quando non si riduce ad una forma di silenzio assenso che i cittadini inconsapevolmente si ritrovano ad aver espresso, è di fatto inesistente. Ed è questo ciò che emerge, in una prima e ridottissima analisi – il che non è da poco –, dalla lettura del libro-dossier “La disputa le trivellazioni nel Val di Noto”, di Gabriella Tiralongo, edito da “Sampognaro & Pupi” editori associati, (79 pp. € 7,00). Ma non solo. Il libro, costituito da un’introduzione e cinque capitoli, ricostruisce, cronologicamente ed in modo oggettivo, affidandosi alla documentazione amministrativa e giudiziaria che l’ha caratterizzata, la vicenda delle trivellazioni nel Val di Noto, mettendone in luce le ragioni a favore e contrarie. Interessanti appaiono i punti di vista dei due tecnici incaricati dalle parti in causa, il comune di Noto e l’impresa Panther Eureka, circa la fattibilità delle trivellazioni in merito ai rischi di ordine ambientale che si corrono, ed altrettanto interessanti sembrano le perplessità di ordine giuridico palesate da una giurista di “Avvocati senza frontiere” circa le modalità che hanno caratterizzato il procedimento che ha originato poi i decreti di concessione, perplessità che rimandano al modo di partecipare, ovvero di rendere partecipe i cittadini nella gestione della cosa pubblica. Non mancano, poi, nel libro alcune interviste a soggetti politici e non, direttamente interessati alla vicenda: l’esito di queste interviste apre a nuove riflessioni, per alcuni versi inedite, che pongono l’accento sulla sicilianità.
Con questo libro Gabriella Tiralongo, giornalista e collaboratrice del quotidiano “La Sicilia”, inconsapevolmente ha offerto una sorta di “servizio pubblico” in favore della cittadinanza e di quanti intendano informarsi sulla vicenda del Val di Noto, limitandosi, appunto, ad informare senza fornire risposte e meno che meno valutazioni di merito, ma fornendo tuttavia gli strumenti al lettore-cittadino per partecipare, dunque per decidere da che parte stare. L’essenza di questo dossier, come giustamente è stato definito nella prima di copertina, sta proprio nel suo essere oggettivo, e allora non ci resta che leggerlo.

Leonardo Miucci
Gabriella Tiralongo, La disputa - Le trivellazioni nel Val di Noto, 2007, 8°, pp. 80,7,00 acquista

LeoSOLO DUE PAROLE Ho come l’impressione di avere in tasca un piccolo tesoro, o forse un segreto, da custodire. Ma è solo un foglio di carta dattiloscritto.
L’ascensore mi porta al quarto piano, a casa mia. Durante l’ascesa sbircio lo scritto, ma ne ricavo ben poco: l’ascensore arriva subito al quarto piano. Entro in casa, scambio velocemente una parola con mia moglie; il divano mi accoglie, e riprendo la lettura. L’avidità mi assale, consumo quel foglio in un batti baleno; indugio; mi rispecchio; mi rivedo e mi vedo cresciuto e tuttavia “bambino”; e soprattutto mi ricordo…
Iniziavo così il mio vero, autentico cammino una sera d’autunno: era il mese di ottobre del 2001. Entravo in libreria, in quel luogo che forse da molto, troppo tempo come una sirena mi tentava; ed accettai, cedendo alle lusinghe e alle sirene. Vi trovai un uomo dal sorriso sincero al quale chiedevo un certo libro sul Buddismo e forse proprio la particolarità di quel libro, oppure il fiuto infallibile di quell’uomo, diede il là a ciò che sarebbe diventato da quel momento in poi l’inizio del mio, del nostro, cammino. Quel libro, oggi, porta la data e una dedica di mio pugno che richiamano quei momenti, come una lapide a futura memoria.
E fu Dante, con il suo Inferno, Leopardi, con il suo Infinito, Sciascia, Bufalino, e sentivo che non mi bastava, che avevo bisogno di altro ancora; quasi volutamente mi creavo ciò che poi ho definito “intrecci curiosati”: leggevo un autore e contestualmente ne leggevo un altro. Avevo come l’impressione di non avere molto tempo ancora a disposizione per leggere, per conoscere; l’idea della morte imminente mi ha sempre tormentato e non tanto per l’evento in sé, quanto piuttosto per la sottrazione di tempo che essa mi avrebbe procurato alla lettura, alla conoscenza. Sarei riuscito a leggere tutti i libri che nel tempo mi sono detto di leggere? Forse mi servirebbe un’altra vita, o forse due vite. Con due vite al massimo dovrei farcela. Si, credo proprio di potercela fare.
E venne poi il momento del dubbio, della curiosità, dello stupore; e fu la volta dell’Arché e quindi di Eraclito, col suo divenire, di Parmenide, col suo “essere”, del Maestro che della maieutica e dell’ironia ne ha fatto vessillo del suo pensare, e ancora Cartesio, col suo “cogito”, Nietzsche, il filosofo che spoglia, Severino e Galimberti, con il loro uomo tecnologico. E Calvino, lo “scoiattolo della penna”, con la sua fantastica realtà e la sua leggerezza, ed Epicuro, che sembra aver risolto il dilemma della felicità dell’uomo (si badi: della felicità, e non dell’infelicità), e Lucrezio, che con “semplici”, naturali riflessioni sembra aver risolto l’enigma dell’esistenza.
E ora sono qua, con il sapore della scoperta e l’eccitazione di quanto ancora resta da scoprire.
Avola, 2 febbraio 2007 Leonardo Miucci
La fronte corrugata del Papa

Alle fine (o all’inizio, a secondo se si preferisce indicare con la morte la fine della vita, ovvero l’inizio di una nuova) anche Lui se n’è andato. Il Papa Giovanni Paolo II, il Grande, ha rassegnato la sua anima nelle mani del Padre. La sua morte ha indotto, e induce, a diverse riflessioni circa il futuro dell’umanità e della Chiesa e, in ultima analisi, dell’importanza della fede cristiana, come fonte del “vero” dialogo. Come si vede le questioni sul terreno sono veramente tante e di forti implicazioni esistenziali, soprattutto perché poste in relazione con l’attuale congiuntura sociale e internazionale. Il bisogno del dialogo, non semplicemente ridotto ad una questione di banale opportunismo, rimane imprescrittibile; se si vuole la pace, ci si adoperi a favore del dialogo, quello tra i popoli e a favore delle diversità, che dovrebbero costituire una occasione di crescita per la stessa umanità, e non un nemico da combattere assolutamente. La necessità di dialogo come condizione necessaria per un mondo di pace è il messaggio che già dalla Giornata mondiale della Pace del 1983 Giovanni Paolo II ha voluto consegnarci; un dialogo propedeutico e necessario alla pace, messaggio che purtroppo, alla luce degli eventi bellici che stiamo vivendo, risulta essere stato disatteso. Ed è singolare, sebbene in perfetta previsione formalistica, come ai suoi funerali parteciperanno anche quei capi di governo che hanno voluto la guerra in luogo del messaggio di pace da Egli tanto amato e profuso. Eppure saranno lì, magari a commuoversi, e non credo per la preziosa perdita, quanto piuttosto per la necessità formale di partecipazione e anche per i favorevoli risvolti mediatici che l’evento importa alla causa politica. E si sa, in politica tutto è ammesso quando si parla di popolarità, anche quando i fatti entrano in contraddizione con le idee, che, appunto, solo idealmente si ritengono di avere nel possesso del proprio patrimonio culturale. Eppure saranno lì, ipocritamente a partecipare alla perdita di un grande Uomo.
Stamattina ho letto il giornale e in prima pagina spiccava la Sua foto, che i giornalisti hanno voluto per forza presentare con un volto sereno, quasi a voler sottolineare che il distacco sia avvenuto con serenità. Sicuramente è andata così, e non può essere andata diversamente. Ma guardando bene la foto sul giornale, mi sono accorto di una piccola contraddizione: Giovanni Paolo II presentava sull’arcata sopraccigliare un leggero corrugamento della fronte, forse esternazione di una preoccupazione proprio per quella mancanza di dialogo, che i nostri politici (tutti i politici del mondo) hanno preferito in luogo di un dialogo universale, multilaterale, partecipato a tutti, soprattutto a favore degli oppressi, degli umili, degli ultimi.
Buon Cammino, Giovanni Paolo II
Leonardo Miucci

Colpe sociali
Sono di questi giorni le annose polemiche sui fidanzatini Erika e Omar, di Novi Ligure, che qualche mese fa hanno commesso un efferato crimine uccidendo la madre e il fratellino della giovanissima ragazza.
Molti si sono chiesti dell’opportunità che i due vengano o meno scarcerati e affidati alla cosiddetta società civile (?). Pochi, invece, si sono interrogati sulle potenziali motivazioni che hanno indotto i due giovani a commettere l’efferato crimine.Hanno creduto in un primo momento, ma solo per ragioni che attengono l’accertamento della verità nel relativo processo penale, che i due potessero essere affetti da una qualche forma di vizio di mente, per cui avrebbero così "meritato" la non punibilità. Ma le perizie hanno scongiurato questa possibilità, e sicuramente i due giovani saranno condannati perché colpevoli.
C’è da chiedersi se oltre ai due fidanzatini responsabili, non vi siano altre responsabilità, ancorché oggettive, che in qualche modo debbano rispondere del delitto. Quali? La società, le istituzioni, noi tutti.
Guardiamoci attorno per un momento, cosa vediamo? Un mondo a misura d’uomo, di adulto che i giovani, proprio come Erika e Omar, rifiutano e contestano. Considerazioni di questo tipo pongono necessariamente l’accento su due pilastri della società: la famiglia e la scuola.
In un mondo sempre più improntato verso un’accezione economica di tipo capitalista, dove per il desiderio di accumular denari si ricorre all’affermazione di maggiori diritti alla persona, e nella fattispecie alle donne, senza che tuttavia ciò avvenga di fatto, mi sembra "normale" (paradossalmente) che simili fatti di cronaca interessino la nostra società.
La donna, la madre, la moglie è il caposaldo della famiglia.
Non che io le voglia negare il diritto di lavoro, sto solo cercando di esplicitare, secondo il mio punto di vista, quella che potrebbe essere una delle cause del disfacimento della famiglia che non deve, si badi, ricadere a titolo di colpa sull’affermazione del diritto al lavoro della donna, ma sull’effetto di esso in una società ispirata sempre più verso un modello capitalista. La Costituzione dice che………la "famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio".
Belle parole ma, a volte, svuotate di blank!
Nelle menti giovanissime manca, poi, una cultura della legalità. Ma credo che anche qui, loro, non hanno colpe, anzi! Nel nostro sistema scolastico manca la possibilità che in tali menti possa essere inculcata (termine forse rozzo, ma serve per dare l’idea di ciò che penso) la cultura della legalità. I nostri insegnanti, ahimè, sono troppo presi dai "normali" programmi scolastici e non hanno tempo per queste stupidaggini (?). Concludo.
Ben vengano l’affermazione dei vari diritti, lo studio di programmi scolastici in linea con i modelli europei, che diano la possibilità di una maggiore conoscenza soprattutto in campo economico (ciò che maggiormente interessa), ma attenzione:
di fronte al verificarsi di crimini come quello in cui ha visto protagonisti Erika e Omar, chiediamoci quantomeno il perché e se non vi siano anche, se non soprattutto, nostre responsabilità.
Leonardo Miucci
13 ottobre 2001
Ore 17,45 sabato


Eschilo o Euripide? Un vero dilemma, forse

E’ segno che i tempi non cambiano gli uomini.
Le azioni degli uomini, soprattutto di quelli che del Kratos ne fanno una ragione di vita, sono sempre state ingannevoli. Contemporaneità della perenne fallacia della natura umana, purezza della più virulente ipocrisia, oggi come allora.
Atene, là dove la civiltà ebbe nascita e per molti anni vide la luce e lo splendore del suo evolversi, proprio grazie a quella fallacia, ne subiva la rovina.  
Nei panni di Dioniso, in questo marasma infernale, sarebbe veramente difficile oggigiorno dover scegliere tra Eschilo ed Euripide. L’attuale cultura non lo consente, è troppo fuorviante: nel dire una cosa, si vuole in realtà significare un’altra; ciò che poco prima si è affermato con squassata convinzione e disperante naturalezza, subito dopo, traendo in inganno anche i più convinti, viene smentito, quasi ridimensionato. Così ci si confonde le idee, certamente non aiuta a capire questa cultura, quest’arte del modus vivendi. 
Il dover scegliere Eschilo verrebbe confuso con la propensione verso un ’idea conservatrice, priva di spinte innovatrici e, pertanto, tendenzialmente destinata a rimanere ai margini della cultura. Una scelta di arroccamento allo scoglio degli ideali ancestrali.
Euripide, poi, non aiuterebbe affatto, anzi. Subirebbe maggiori biasimi, ipocrisie di genuina maestranza, sagacia naturalezza nell’accattivarsi il consenso del Teatro.
La scelta è tutt’altro che semplice, in entrambi i casi si rischierebbe di sbagliare. E comunque si sbaglia. Che fare? Quale il consiglio?
Agli attuali poeti chiederei una maggiore chiarezza; ahimè, l’ignoranza di non comprendere la loro difficile arte oratoria, io che di cultura non mi intendo, ma che vorrei tanto intendere.
Chiederei anche una maggiore aderenza alle loro idee poetiche, alle loro sensazioni artistiche che, nel momento della loro presentazione, ebbero a magnificare al cospetto del pubblico richiedendone la auspicata affermazione.
Ma chiederei anche un maggiore rispetto per i più deboli di mente, proprio quelli come me, che si aspettano, appunto, una più proficua attenzione anche in modo da consolidare quell’affetto di per sé già vacillante.
Mi aspetto soprattutto che i poeti facciano il bene comune della cultura e del pubblico che intorno ad essa ruota e si sviluppa; che si ricordino che il Teatro sceglie loro e non viceversa.
 
Leonardo Miucci 


Venerdì 8 febbraio 2002
Avola, «Inferno» di Dante
una pizza e una birra

E' possibile coniugare, mettere insieme in perfetta simbiosi ed armonia la lettura di un canto della Divina Commedia con un boccale di birra ed una pizza margherita? Ci hanno pensato gli amici di Avola in laboratorio, valido incubatore di cultura avolese, che si sono dati appuntamento l'altra sera in un pub alla periferia della città e tra un sorso di birra ed un altro hanno letto e commentato il secondo canto dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri. E' il canto in cui Dante esprime alla sua guida Virgilio la paura che egli ha di fare il viaggio che il poeta latino gli propone.
"Una esperienza nuova- afferma Francesco Urso, titolare di una libreria - nata per caso da una idea estemporanea di un iscritto all'associazione AVOLA IN LABORATORIO. Questo ragazzo da alcuni giorni aveva ripreso per conto proprio la lettura dell'opera dantesca ed ha chiesto ai soci del laboratorio di ripercorrere il cammino del poeta fiorentino con la lettura di alcuni canti, ancora oggi di grande attualità. A guidare questo cammino non poteva certo mancare l'amico Sebastiano Burgaretta , socio della nostra associazione, che ci ha fatto entrare in un mondo vecchio che già conoscevamo dai tempi della scuola superiore ma sempre nuovo ed attuale. Una esperienza unica nel suo genere, un viaggio attraverso un mondo che fa riflettere ed accrescere le nostre conoscenze, il nostro Io interiore".
Così circa trenta iscritti si sono dati appuntamento in un pub, ed in una cornice suggestiva, fatta di luci soffuse e atmosfera silenziosa Sebastiano Burgaretta, dopo avere opportunamente inquadrato la genesi e il senso dell'opera dantesca, ha dato corso alla lettura del secondo canto, raccogliendo l'attenzione e lo stupore dei presenti. "Dante è quasi stato quasi sfrattato dalle scuole - afferma tra il serio ed il faceto Burgaretta- abbiamo pensato così di accoglierlo in pizzeria. Una lettura senza pretesa alcuna, dettata solo dalla voglia di aggregarci, ritrovarci insieme alcuni amici e creare opportunità nuove di incontro e di confronto, maturare attraverso la lettura di un'opera che conserva intatta la sua attualità." Burgaretta ha tracciato le linee generali dell'opera, con riferimenti all'umanità del Poeta, al periodo in cui è stata scritta la Divina Commedia, introducendo il primo canto e passando direttamente al secondo, dove il poeta viene preso da un moto di scoraggiamento.
Il poeta è combattuto tra il suo desiderio di salvezza e la coscienza della propria umana fragilità e della propria indegnità di fronte al compito che gli viene proposto. Si evidenzia, infatti, il rischio sempre vivo e presente nella possibile contraddizione tra un senso di superbia personale collegata alla consapevolezza del proprio genio poetico da una parte e l'umiltà derivante dalla coscienza dei propri limiti umani dall'altra. E' venuta fuori una straordinaria analogia tra i problemi sociali e politici del tempo di Dante e quelli del nostro tempo, così come è stata rilevata l'analogia, si direbbe quasi la stretta somiglianza, tra le esperienze vissute dall'Uomo Dante e le esperienze che viviamo gli uomini di oggi, tanto sul piano strettamente personale quanto nel rapporto con la società tutta.
E' emerso anche l'atteggiamento umile del poeta, che di fronte all'impossibilità razionale di dominare la realtà, lascia aperto lo spiraglio, nel suo animo, alla ricezione della rivelazione. Tutte queste problematiche hanno coinvolto vivamente i partecipanti a questa specie di conviviale. Sono infatti intervenuti frequentemente con osservazioni e approfondimenti quasi tutti i presenti. "Seguiremo in questo viaggio - dice Burgaretta - l'evoluzione dell'uomo Dante in un percorso che lo fa maturare, gli fa incontrare personaggi importanti, vivere eventi che lo mettono in discussione. Nella speranza che attraverso questo percorso anche noi personalmente possiamo crescere un po' ". " Non è la prima volta che leggo la Divina Commedia- afferma uno dei partecipanti- ma rileggere adesso i versi del padre della lingua italiana da adulto e non più da ragazzo mi ha dato la possibilità di guardare il mondo che mi circonda in una nuova luce ed ottica. Una nuova visione di insieme, che mi farà maturare ancora di più, perché Dante è attuale nella sua visione sociale e politica".
Sebastiano Raeli


Il diritto di cronaca,
la presunzione d’innocenza,
la ricerca della verità


Il delitto di Cogne, con i suoi preliminari esiti, ha riesumato problemi che toccano quotidianamente la nostra vita, la nostra società. Ci si chiede come mai questo delitto, che in altri contesti avrebbe suscitato una normale reazione, abbia invece generato un così forte scalpore in seno all’opinione pubblica. Le motivazioni possono essere molteplici, ma credo che tre sono le principali cause a fondamento: la vittima è un bambino di tre anni, indifeso e difesosi dall’attacco solo con la sua manina nel vano tentativo di parare quei maledetti colpi che gli venivano inferti dal suo omicida; il luogo dell’evento, caratterizzato da un contesto socio-culturale basato su una comunità di poche migliaia di anime, dove mai, o quasi, succede niente; infine, la certezza, almeno per gli inquirenti, che il delitto si sia consumato nel contesto familiare. Questi gli elementi che la stampa e i mass media in genere hanno messo in rilievo nel loro modo di fare informazione; nel loro dovere-diritto di cronaca.
I processi e le condanne fatti nelle varie trasmissioni televisive non hanno certamente giovato né alla ricerca della verità, né all’immagine ed alla privacy della famiglia la quale, oltre alla perdita del figlio, ha dovuto subire anche di queste violenze.
Ma il diritto di cronaca!!???...direte! Fa parte della nostra libertà di opinione. Qui però non si discute di un principio democraticamente acquisito, quanto piuttosto del rispetto delle altrui libertà che costituisce forse l’unico limite alla propria libertà: la privacy, nel caso di specie.
Ma la stampa, col suo diritto-dovere di cronaca, ha violato un altro principio che è alla base di ogni ordinamento giuridico che possa dirsi democratico e di diritto: la presunzione d’innocenza, ossia il fatto che nessuno può essere dichiarato colpevole prima che sia intervenuta sentenza passata in giudicato. Mi sembra ovvio che questa sia la violenza più grave poiché, oltre ad aver intentato una sentenza di colpevolezza a carico di una mamma, ritenuta (prima della condanna) rea di aver ucciso il proprio figlio, tenta, riuscendovi, di diffondere attraverso i mass media l’idea della sicura colpevolezza al punto da farla sostenere plausibile dalla maggior parte dell’opinione pubblica.
Si crea così il colpevole, un colpevole a misura dell’esigenza giudiziaria.
Quasi un capro espiatorio che, nel caso in esame, non può non essere identificato nella giovane madre dal momento che il delitto certamente è maturato tra le mura domestiche, perché così sono stati i precedenti, e così deve essere questo.
Gli inquirenti si determinano. All’incalzare delle sempre più frequenti domande da parte della stampa, si arriva al punto in cui urge dover dare una risposta; la risposta viene data con l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, smarrendo, così, il vero obiettivo della Giustizia: la ricerca della verità. Quella verità a cui ogni giudice è chiamato, ma dalla quale, spesso, vi rifugge perché accecato dal bagliore di una apparente e similare verità. Così si rischia che ogni organo chiamato a fare il proprio dovere, rispetto al verificarsi di un qualsiasi evento, fa tutto tranne ciò: la stampa, nel fornire notizie e fare informazione dovrebbe analizzare l’evento al massimo da un punto di vista sociale, interrogandosi sul perché proprio questi eventi abbiano luogo, finisce invece con l’ipotizzare responsabilità, giudicare e condannare; gli inquirenti, che con le loro indagini dovrebbero rincorrere l’accertamento della verità e perseguire i reati, invece abbozzano una serie di indizi che pongono a fondamento di un castello accusatorio privo dei requisiti di legittimità come, per esempio, il pericolo di fuga, la possibilità di reiterare il delitto e l’inquinamento delle prove (quali?). Un provvedimento sofferto, quindi, come lo stesso GIP lo ha definito; un provvedimento sul quale pende la scure, forse, dell’errore giudiziario, come lo stesso GIP si è preoccupato di affermare, quasi volesse già giustificarsi dell’eventuale casualità.
Rimane così l’agghiacciante verità della non verità, ovvero della precaria verità, che dir si voglia. Rimane anche, almeno per il momento, l’aver impresso in capo ad una mamma un marchio indelebile e tra quelli infamanti sicuramente il più infamante di tutti: l’aver ucciso il proprio figlio. Ma rimane anche, e sempre per il momento, un omicidio da risolvere, una verità da inseguire e da scoprire.

1 aprile 2002
Leonardo Miucci


Da: "Sara Marilena Monti" <momar2002@libero.it>
Data: Thu, 4 Apr 2002 11:54:53 +0300
A: <info@libreriaeditriceurso.com>
Oggetto: R: Una verità da inseguire e da scoprire, di Leonardo Miucci

Condivido in pieno quanto afferma Miucci- Non è possibile che scaicalli con denti insanguinati, dal video, (pungiglioni di "vespe" e affini) vadano tanto superficialmente a condizionare l'opinione pubblica. Io , e non ne faccio mistero, odio i giornalisti (con le dovute eccezioni....).penso con angoscia a una madre che perde così atrocemente il suo cucciolo e che per giunta viene accusata del delitto e chiusa in carcere... E se fosse innocente (come io credo) chi, cosa potrebbe mai risarcirla di tanta doppia violenza?

Marilena Monti

 


Cara Marilena Monti,
Non so se posso darti del tu, ma vorrei arrogarmi questa prerogativa perché tale è per me.
Mi presento: mi chiamo Leonardo Miucci, da Avola (SR), iscritto, proprio come te, alla mailing list dell’editore Francesco Urso, Ciccio per i soli Amici.
Ho seguito spesso, e con interesse direi, i tuoi tanti interventi e per ultimo quella “piccola”, favorevole e oserei dire spigliata considerazione in merito alla mia riflessione sul delitto di Cogne. La tua seppur breve considerazione, infatti, nell’accennare al problema del risarcimento (più morale per la verità) delle persone “intrappolate” nelle maglie della Giustizia (Ingiustizia!!??), ha posto in risalto ciò che forse non attiene prettamente al campo del diritto quanto a quello dell’intimo umano: la coscienza. Ciò che viene richiesto a chi è chiamato a giudicare è di farlo secondo coscienza. Sembra quasi un pensiero filosofico o profetico se vogliamo, ma in realtà è ciò che serve nel dare condanna, nel giudicare. Ultimamente, soprattutto con l’avvento delle ultime mode di costruire informazione, dove tutto è ammesso purché ispirato ai dogmi dell’audience, si è smarrita questa filosofia e si tende ad esprimere giudizi su chicchessia ed a volte anche in modo spropositato, con gravissime conseguenze, soprattutto sul piano morale, per la persona destinataria di siffatti giudizi.
Non esiste, quindi, la possibilità per la persona destinataria di simili “giustizie” di venire risarcita del danno morale giacché l’interprete della legge, nell’esprimere sentenza, emette giudizio secondo coscienza. Nella realtà, tuttavia, ciò non avviene o avviene raramente.
Ecco perché la giustizia non può appartenerci, non può essere di questo mondo: chi è chiamato a giudicare non lo fa con la profezia della coscienza, bensì con il sentimento dell’incoscienza.
Molte grazie per la tua opinione e spero di sentirti ancora.
Leonardo Miucci 

Un caso di Malasanità, su cui riflettere; che si tratti del caso dell'Ospedale di Noto, o di un altro Ospedale lontanissimo, cambia poco, se i problemi sono più o meno uguali. Qui non siamo in Afghanistan o in Irak! Qui, pensate un po', siamo nell'ultima lingua di terra d'Europa, nell'estremo Sud d'Italia, in quel territorio dell'ex Val di Noto, conclamato di recente Patrimonio dell'Umanità.
Un disservizio sociale pagato a caro prezzo
Un prevalente pensiero in seno all’opinione pubblica afferma che l’offerta di beni e servizi della Pubblica Amministrazione sia insufficiente e scadente rispetto alla domanda dei cittadini, soprattutto in relazione al gettito fiscale dei medesimi contribuenti.
Per onore di verità devo dire che ho motivo di condividere la tesi sostenuta, purtroppo a causa di fatti vissuti presso l’Ospedale Civile Raffaele Trigona di Noto, cittadina sì sede del Barocco siciliano, di recente inserita nel patrimonio dell’UNESCO, ma quanto a gestione dell’ospedale civile non gode della medesima fama.
L’ospedale in questione visto dall’esterno non dà proprio l’impressione della cattiva gestione, anzi, chi vi giunge per la prima volta ha anche la fortuna di trovare un comodo parcheggio per l’auto. Ma la sorpresa, come in ogni cosa, è sempre dentro. Così, al primo piano, dove è situato il reparto di Ginecologia e Ostetricia, reparto incriminato, il paziente si imbatte in un lungo corridoio arredato da vetuste panche occupate da altri pazienti che attendono il loro turno per entrare forse nell’unico ambulatorio (sempre occupato da qualche medico di turno) disponibile; le pareti si caratterizzano per la loro particolare rovina, sporcizia e funeree nel loro apparire complessivo. La sala operatoria del reparto in questione non è funzionante per via di alcuni lavori di manutenzione (così è stato riferito) e pertanto il personale fruisce di sale operatorie al secondo piano, del reparto di chirurgia, dove le donne in stato di gravidanza che si apprestano a subire l’intervento da parto cesareo vengono “invitate” a raggiungere a piedi, e senza l’ausilio di alcuno del personale paramedico o infermieristico, la sala operatoria, transitando attraverso un corridoio ove parenti, amici e affini di altri pazienti attendono, tra una sigaretta e l’altra, gli esiti operatori di altri interventi. Il tutto nella più totale indifferenza del diritto alla privacy. Ma credo che all’ospedale di Noto il diritto alla privacy sia un optional.
Le stanze di degenza sono fatiscenti, le infrastrutture malfunzionanti e vetuste. Durante le nottate di questo febbraio molti sono stati i pazienti che hanno sofferto il freddo: i termosifoni venivano spenti ad una certa ora della sera perché questa era la disposizione. E le richieste di coperte dei pazienti, soprattutto di quelli che avevano subito poche ore prima un intervento chirurgico, non potevano essere soddisfatte in quanto a dire dal personale infermieristico le coperte “erano contate”.
Benché un avviso all’ingresso del reparto avverta degli orari di visita, non esistono – di fatto – orari di entrata, limiti di permanenza e orari di uscita per le visite ai familiari in degenza; ed è anzi consuetudine portare nella stanza abbondanti colazioni a base di squisiti manicaretti locali, consumate tra gli stessi familiari fino a notte fonda, con caffè e consueta sigaretta finale. Il tutto sotto l’occhio vigile del personale infermieristico che di tutto si preoccupa tranne che di inibire tali comportamenti.
Alle lamentele dei pazienti, il personale invita a presentare denuncia presso la Direzione sanitaria dell’ospedale. Come se la Direzione sanitaria dell’ospedale avesse oltre che la competenza di gestire l’ospedale (e che competenza, e che gestione!) anche quella di ricevere le denunce relative al proprio disservizio. Dopo questa esperienza, uscito dall’ospedale, più precisamente dal reparto di Ginecologia e Ostetricia, mi è venuto il dubbio se fossi o meno uscito da un osteria invece che da un ospedale. E volendo eguagliare l’iniziativa dell’UNESCO, mi sono anche chiesto se non sia il caso di inserire la cittadina barocca anche nell’elenco dell’Organizzazione internazionale WHO (World Health Organization), Organizzazione Mondiale della Sanità che ha anche compiti – tra gli altri – di assistenza in materia sanitaria, a favore dei popoli bisognosi. Magari che non si risolvano i problemi.
Mi sono detto infine che c’è poco da scherzare: la “Malasanità”, non solo quella propriamente concepita come fenomeno di corruttela, ma anche quella in cui il servizio pubblico è concepito (purtroppo) solo come una mera esecuzione di atti, è una problematica di rilievo della società civile, e segnatamente di quella moderna dove tutto, e quindi anche i malati e soprattutto il modo di curarli, acquista importanza solo ed esclusivamente attraverso il mercato, lecito o illecito che sia.
Per non piangere, mi sono fatto una risata. Dopotutto è Carnevale!
Leonardo Miucci
4/3/2003

La pagina di
Martino Miucci


 

Libreria Editrice Urso
Corso Garibaldi 41 96012 AVOLA (SR) ITALIA

email info@libreriaeditriceurso.com Novità del mese Offerte del mese Acquista per informazioni
sito internet http://www.libreriaeditriceurso.com

Dal 1975 un angolo di cultura ad Avola

Welcome | Poesia Araba Fenice | Mneme | Iconografica | I quaderni dell'Orso |
Fuori collana | | Recuperata | Novità Edizioni Urso | Offerte del mese
|
iscriviti alla ''Mailing List''
|webdesigner

per informazioni Acquista Offerte del mese Novità del mese